Enzo Varricchio
PUBBLICATO SU Barisera 1998

 

I dispensatori di doni

La storia incognita di San Nicola, dei Magi, della Befana, di Babbo Natale e delle altre figure mitiche che portano regali ai bambini

 

“Quando un immagine fantastica passa nel nostro mondo lascia dietro di sé meravigliosi sentieri, più umani di un uomo reale”.
Charles W. Jones

 

 

Le civiltà antiche attribuivano particolare importanza alle ricorrenze naturali, zodiacali e calendariali. Gli avvenimenti astronomici, l’avvicendarsi dei cicli stagionali e colturali erano percepiti a livello individuale e condivisi nei rituali collettivi.
I riti di fertilità terrestre, le previsioni di àuguri ed aruspici, le preghiere ai numi atmosferici per propiziare la navigazione, le danze pluviali e i banchetti funebri, le cerimonie orgiastiche e le pause di purificazione, venivano rinnovati in particolari occasioni, coincidenti con le scansioni caratteristiche della metamorfosi ciclica della natura e della nozione stessa di tempo. In quei momenti propizi o infausti si credeva possibile varcare le porte di altre dimensioni, mettere in comunicazione i vivi e i morti, in una visione panica e sapienziale che faceva del dio padre o della madre dea, del sovrano o dello sciamano loro tramiti, il fulcro della cerimonia. I giorni fausti e quelli dolorosi, le nascite e le morti erano spesso regolati da una figura mitica, un personaggio simbolico, che concentrava su di sè le speranze e le aspirazioni di tutta la comunità.
La società contemporanea, per i suoi ritmi tachicardici, ha dimenticato di fermare la propria corsa nei momenti in cui l’universo muta. Anche le festività cristiane, che opportunamente furono cadenzate in modo da riprendere simbolicamente le antiche tradizioni calendariali, vengono sentite in modo estrinseco e consumate rapidamente e isolatamente dall’uomo dell’era post-tutto. Non stupisce, beninteso, che si siano progressivamente abbandonati i rituali connessi a forme primitive di vita e di produzione economica ma il fatto che si rinunci del tutto a capire il senso, il significato profondo e sempre attuale del mutamento ciclico. Le festività calendariali dovrebbero costituire un’occasione per concentrare la propria energia, almeno per un istante, e “ricordare il futuro”. Riconciliare l’io col tutto, approfittare della vacanza (dal latino vacare, essere vuoto, privo di impegni) per svuotare e ricaricare, circondati dagli affetti, la propria identità spirituale, come si fa con le batterie di un cellulare.
In effetti, esiste tuttora una certa memoria significante di riti e tradizioni connessi alle date fatidiche. Certe strutture ideologiche persistono rifunzionalizzandosi, le figure mitiche vengono riciclate come è accaduto per San Nicola, l’antesignano di Babbo Natale, per il quale la Coca - Cola Company ha inventato a scopo commerciale nuove vesti e un nuovo ruolo di donatore e di protettore dei fanciulli. Anzi, il nostro tempo sta compiendo uno sforzo per riappropriarsi della memoria dimenticata, di quanto si è perduto, di quanto si è conservato delle antiche consuetudini, di quanto sopravvive immoto nei millenni, di ciò che non si è creato o distrutto ma solo trasformato.

 

L’inverno
La notte, il rallentamento delle funzioni biologiche, il letargo, il silenzio, la morte, la chiusura di piante e animali, il freddo e il bisogno di coprirsi, tutelarsi, in attesa della rinascita del sole e della luce, della rifondazione della vita all’alba di un nuovo domani...
In chiave simbolico religiosa l’inverno è l’equivalente della caduta dallo stato edenico, della discesa negli inferi dopo l’età aurea. Gli antichi alchimisti lo assimilavano alla “nigredo”, al composto primordiale, alla prima delle operazioni da compiere per trasmutare il vile metallo in oro. In un’ottica psicologica, è percepibile come la fase di ripiegamento dell’Io, della deflessione dell’umore, della riflessione interiore prima dello slancio vitale e creativo.
L’inverno è la stagione dedicata ai fanciulli. E’ il momento in cui si rinsaldano le unioni destinate a durare e si sfasciano gli equilibri precari. Ricordo un bel libro di Rick Moody, intitolato Ice Storm ed ambientato nei primi anni settanta, allorquando una tremenda ondata di freddo colpì le regioni nordorientali degli Stati Uniti. Una cittadina del Connecticut viene bloccata dal gelo. Il tempo si ferma e un destino feroce scardina i delicati equilibri di una famiglia. Il rivolgimento e la confusione dei ruoli abituali tra gli adulti e gli adolescenti (tipico di quegli anni come dei nostri) determina una tempesta emotiva che, in un finale tragico (la morte di un bambino), cagiona la caduta della cultura precedente e l’avvento di una nuova coscienza.
Tutte le culture in ogni tempo hanno immaginato, vissuto e rappresentato il momento del passaggio da uno stato cosmico all’altro e hanno dato vita a figure di numi, eroi, santi, simboli, miti e tradizioni, tipici dell’inverno, allegorie della transizione e della mortale attesa prima della rinascita. Com’è ovvio, le sfasature stagionali e le diversità climatiche, dovute alle diverse posizioni geografiche, determinavano le discrasie tra le date di celebrazione dei culti invernali. Significativamente, il Capodanno celtico (Samuin) era collocato nella prima decade di novembre, in epoca diversa da quello latino consacrato a Giano (nel mese Januarius). In Occidente, tutto il periodo tra novembre e marzo veniva vissuto nella trepida attesa della scomparsa del vecchio e dell’annuncio della nascita del nuovo ordine delle cose. Una volta dicembre era il tempo del dio italico-laziale Saturno, la divinità infera che governava il caos. La lotta tragica tra il bene e il male era sempre incerta e l’apocalisse imminente. Nel calendario cattolico i giorni “dalla vigilia di Ognissanti fino alla Candelora, il giorno dei defunti, di San Leonardo, San Martino, San Clemente, santa Caterina, Sant’Andrea, santa Barbara, San Nicola, di Natale, santo Stefano, San Giovanni, degli Innocenti, di santa Genoveffa e sant’Ilario si associano tutti al soprannaturale, al patetico e a tutte le forme violente di nascita e morte”. In questo periodo occorreva più che mai esorcizzare il male e la morte e talora il miglior modo per farlo era quello di rappresentarli, attuarli analogicamente, inscenarli. Il disordine sociale e il caos universale venivano allontanati simulando il loro trionfo, attraverso l’inversione delle regole domestiche, le questue, i doni, i giuochi e i pranzi collettivi. I servi venivano serviti dai loro padroni, i fanciulli comandavano, i monaci si davano ad esibizioni folli e lascive, si evocavano gli spiriti nei cimiteri.

I culti e le divinità del solstizio invernale
Per le popolazioni primitive la categoria di tempo si compenetrava nei ritmi biologici al punto che le articolazioni stagionali e mensili erano scansionate in modo tale da rispecchiare lo spegnersi e il rifiorire annuale della natura e l’inizio del suo nuovo ciclo. “La coincidenza tra corso annuale della natura e concezione del tempo portava a ritenere che con il concludersi dell’anno si esaurisse anche il ciclo del tempo. Questa evenienza così critica veniva individuata a ridosso del solstizio d’inverno (22 dicembre), nel momento cioè della massima distanza angolare dei due piani formati dall’eclittica e dall’equatore, quindi di minore insolazione della terra per la parte interessata. Moriva la vegetazione e con lei moriva il tempo. Declinava la luce e estendeva i suoi confini il regno delle ombre. Era l’inverno, era dunque l’inferno”.
Invero, l’inferno (è forte l’affinità con la parola inverno) come luogo di punizione è un’invenzione tarda. Le civiltà arcaiche sentivano caso mai nella stagione fredda la vicinanza con le potenze infernali nel senso di infere e subterrestri, con gli dei ctoni dell’oltretomba, con l’antimondo dei morti che ritornano. La cultura occidentale (e il cristianesimo in modo radicale e definitivo) ha in seguito scisso la vita dalla morte, relegando quest’ultima nel campo del nulla e del non essere. Non era così per le culture primitive, almeno per quelle successive al periodo in cui si diffuse l’agricoltura nell’area mediterranea (VI - VII millennio a.c.). Tutta la simbologia delle ricorrenze festive invernali, strettamente connessa ai cicli agrari e finalizzata a favorire magicamente la rigenerazione della vita, la nascita della pianta dopo la morte del seme, era basata sulla convinzione che non esistesse una netta distinzione tra il mondo iperboreo e quello sublunare. L’universo era considerato una unità simpatica. Il fuoco, figlio del sole, elemento che illumina e riscalda, immagine concreta dell’energia vitale, veniva acceso e custodito in modo sacrale da vestali o sacerdoti. La sua estinzione equivaleva alla fine del mondo. Questo spiega perchè i personaggi mitici del periodo invernale hanno sempre avuto qualche rapporto col fuoco e ancor oggi si è soliti accendere candele, falò o strumenti pirotecnici.
Le modalità con cui coltivare la terra o intraprendere la navigazione erano strettamente dipendenti dall’andamento atmosferico e dalla scansione temporale determinata dagli astri e dai cicli vitali. La vita e la morte, il sole e la luna, la luce e l’oscurità, il male ed il bene erano eternamente compresenti nella loro ciclicità. Persino la divinità doveva morire e rinascere per promuovere la resurrezione della vita. E’ un esempio di tale assioma Dumuzi o Tamuz, celebrato durante la festa sumerico accadica del Capodanno. La stessa funzione di morte e resurrezione è affidata al dio egizio Osiride, nel suo aspetto di divinità generatrice, al binomio femminile Demetra - Kore, al dio indoariano (poi adottato dai romani) Mitra, al dio azteco Huitzilopochtli, al Babbo Natale arso vivo a il 24 dicembre davanti alla cattedrale di Digione (descritto da Claude Lévi - Strauss in Le Père Noel supplicié).
Gesù, figlio di Dio, “sole del cristianesimo”, compì la grande rivoluzione. Come gli altri dei, “morendo distrusse la morte e risorgendo affermò la vita”. Ma invertì i valori, connotando negativamente l’una e positivamente l’altra.

Le categorie ai margini della società: i defunti, le vergini non sposate, gli schiavi, i mercanti, i marinai e i fanciulli.
Per gli antichi, i morti non scomparivano definitivamente ma continuavano una forma altra di esistenza, ai margini della comunità, per poi tornare in essa durante alcuni giorni particolari dell’anno e svolgere una funzione propiziatoria e apotropaica del nuovo ciclo vitale. Presso i popoli nordici, Natale (Jul o Jula) era la festa dei morti ma anche una grande celebrazione della fertilità e della vita. I defunti erano considerati vicini ai grandi misteri della natura. I vivi tentavano di ingraziarsi gli avi con riti appropriati (ad esempio il pasto sulla loro tomba), come facevano per le divinità. L’obiettivo era di scongiurare il fatto che i defunti si presentassero in vesti demoniache e di utilizzare il potere magico-sovrannaturale di cui erano dotati per dominare le forze naturali. Anche i fanciulli (come le vergini non sposate, gli schiavi, i mercanti e i marinai, con le loro cicliche assenze dalla società), prima della loro iniziazione postpuberale, venivano considerati esterni alla comunità, potremmo dire latenti ad essa, come i morti. Proprio per questa affinità tra le due categorie di “non-vivi”, i bambini venivano utilizzati ed inviati come messaggeri nell’oltretomba. Agli inizi, le sacre cerimonie prevedevano proprio il sacrificio dell’infante o dell’adolescente. Attraverso la mediazione mitica dei fanciulli, i vivi parlavano con i morti o li esorcizzavano e i defunti tornavano temporaneamente a far parte della comunità, espletando il loro destino di eterna compresenza.

I dispensatori di doni
I fanciulli erano un dono offerto alle anime dei defunti. In seguito, il meccanismo venne trasfigurato simbolicamente e concentrato sull’elemento oggettuale dello scambio apotropaico: il regalo. Il dono, da offerta agli dei, si trasforma in presente ai fanciulli. Esso, in quanto sintesi dell’idea di scambio, omologa e avvicina i soggetti interessati. Nel mondo antico il dono era un obbligo sociale. Solo il dono fatto a una divinità non comportava l’obbligo di ricambiare. “Il regalo solo apparentemente è un atto volontario e libero”. L’oggetto dato in dono crea un vincolo bilaterale e irrevocabile, stabilisce un patto, un rapporto. Ogni oggetto donato ha un forte potere simbolico, presuppone una carica magica, religiosa o spirituale, con la quale il donatore tende ad affascinare il destinatario. I rapporti tra uomini e oggetti è talora morboso, perchè questi ultimi vengono caricati di valenze simboliche e di significati “umanizzati”. Poter disporre delle cose significa talora illudersi di dominare il prossimo. Secondo alcuni studiosi fu proprio la necessità di spersonalizzare il dono fatto ai defunti e ai fanciulli, loro mediatori mitici, evitando condizioni di reciprocità nella attribuzione donativa, a determinare l’impiego dei dispensatori sovrannaturali di doni, i cosiddetti “dona ferentes”. I Magi, San Nicola, San Martino, Santa Lucia, Gesù, in ambito cristiano, la Befana, Babbo Natale, e gli altri personaggi che portano doni ai bimbi, vengono accomunati da una triplice esigenza funzionale. La prima sarebbe quella di educare i bambini attraverso il meccanismo premiale o sanzionatorio (la frusta con cui è rappresentato talora San Nicola, la bacchetta di Santa Lucia o il carbone della Befana). La seconda, anch’essa di natura pedagogica, consisterebbe nella menzionata spersonalizzazione del dono e nella conseguente possibilità di emancipare l’atto dalla sua funzione di scambio. Donare attraverso queste figure mitiche eviterebbe ai più piccoli di dover ricambiare con un comportamento non pretendibile. La terza sarebbe quella di stabilire un legame di continuità con riti propiziatori più antichi, un rapporto metagenerazionale. Queste tre interpretazioni si limitano a descrivere il fenomeno senza spiegarlo e ne riducono arbitrariamente la portata. Infatti, solo le manifestazioni ultime della stirpe dei donatori, peraltro di tipo consumistico, rappresentate esemplarmente da Babbo Natale e dalla Befana, sono relegate nel periodo invernale e all’atto del donare. Che cosa sarebbe d’altronde Babbo Natale senza il Natale? Invece, gli altri personaggi menzionati posseggono innumerevoli altre funzioni simboliche e molteplici significati, a prescindere dal rapporto con i fanciulli e con l’elargizione. Essi si sono radicati e sviluppati in ambiti geografici e contesti culturali molto diversi tra loro, adeguando le proprie caratteristiche a seconda delle esigenze delle popolazioni: un mito sull’altro, una tradizione dentro l’altra, secondo un meccanismo che ricorda le scatole cinesi o le bambole russe. Il loro valore spirituale e la loro complessità intellettuale sono enormi. I Magi erano gli ultimi rappresentanti di una cultura e di una religiosità in via di estinzione, i cui epigoni si sono tramandati nei secoli per via esclusivamente ermetica. Gesù era il Cristo Redentore, seconda persona di un sistema di tipo trinitario che cambiò il mondo ed il modo di pensare della gente. San Nicola protegge una infinità di altre categorie sociali oltre i bambini, come i navigatori, i mercanti, i carcerati e persino i fuochisti. Avere la pretesa di tracciare una storia unitaria di queste figure, limitandola alla sola funzione donativa, significa centellinare da esse una parte microscopica della loro esistenza biografica e mitemica. Per questo, nell’ambito di questo mio breve lavoro, non potendo sviscerare ed esaurire tutte le questioni, ho preferito seguire un metodo analogico, diciamo pure per associazioni ideali, in modo da offrire altri spunti alla futura speculazione e continuare l’investigazione sui diversi e talora misteriosi collegamenti che sussistono tra i personaggi e i simboli dell’Avvento e del Natale.

 

La festività dei santi e quella dei defunti

I primi giorni di novembre segnano la fine di un anno agricolo e l’inizio del successivo. Una volta, nelle terre abitate dai Celti, nelle regioni settentrionali dell’Europa, in Pannonia e in Asia Minore, durante la prima decade del mese di novembre, si celebrava il Capo d’anno (Samuin per gli irlandesi e Nos Galan-gaef, “notte delle Calende d’inverno” per gli scozzesi), di cui la festa di Hallow’ en, celebrata oggi il 31 di ottobre in Irlanda e negli Stati Uniti, è solo un’eco sbiadita. Si aprivano le tombe e i morti si mescolavano ai vivi, i quali potevano visitare il mondo infero, a patto di rimanervi sino al Samuin successivo. I cimiteri si adornavano di fragranze floreali per alludere ai profumi paradisiaci dell’aldilà. Si trascorreva la notte in una veglia caratterizzata da eccessi nel bere, nel suonare e nel cantare. Gli eccessi costituiscono una manifestazione fondamentale dell’economia del sacro. “Spezzano la barriera fra uomo e società, natura e dei; aiutano la circolazione della forza, della vita, dei germi da un livello all’altro, da una zona della realtà a tutte le altre. Quel che era vuoto di sostanza si sazia; il frammentario si reintegra nell’unità; le cose isolate si fondono nella grande matrice universale”. I Celti usavano pure accatastare teschi, perchè pensavano che il morto appartenesse, per un certo tempo, a entrambi i regni. Grazie a tale suo stato transitorio, il cadavere profetizzava l’avvenire e proteggeva i vivi dagli eventi nefasti.
Fu l’episcopato franco, nel nono secolo dopo Cristo, ad istituire al 1° novembre la festa di Ognissanti, forse proprio allo scopo di “cristianizzare” il Capodanno Celtico. Tuttavia, sin dal III- IV secolo, la Chiesa orientale aveva già sentito l’esigenza di celebrare tutti i santi in un unica ricorrenza, che in seguito papa Sisto IV estese dal regno franco a tutta la Chiesa occidentale. Si festeggiava ogni anno il dies natalis del santo, ovvero il giorno della sua morte e ascesa al cielo, la sua rinascita spirituale. A Roma il 13 maggio del 610, papa Bonifacio IV dedicò il Pantheon alla Vergine Maria e a tutti i martiri, applicando la teoria dei “furti sacri” escogitata da Sant’Agostino, una sorta di espropriazione legittima dei templi pagani.
La Commemorazione dei defunti, stabilita in una occasione specifica del calendario, ebbe origine nella chiesa bizantina e fu introdotta nella Chiesa latina nel secolo X dai monaci benedettini. Nel 998 sant’Odilone ordinò ai monasteri dipendenti dall’abazia di Cluny di far risuonare le campane con i rintocchi funebri dopo i vespri solenni del 1° novembre, prescrivendo ai cenobiti che l’Ufficio dei defunti andava celebrato in coro. “L’Anniversario di tutte le anime” (nome originario della festività) apparve a Roma per la prima volta nel secolo XIV.
L’usanza di commemorare i defunti, come quella di dedicare un giorno alla festa di tutte le divinità, non riguarda solo i Celti ma può dirsi universale e non ha mai avuto, se non nell’Occidente moderno, carattere triste e funebre. A parte il caso eclatante dell’Irlanda, paese europeo ove il giorno del 2 novembre si svolge ancora in gioiosa comunione familiare e sembrano violate le barriere tra i vivi e i morti, in diversa area culturale (in Messico), le feste di Todos los Santos e del giorno dei Morti, si svolgono in un clima di analoga allegria. “Si preparano dolci di pane in forma di teschi e scheletri a significare che dai morti, dai semi sotterrati rinasce la vita, ovvero i morti che ci nutrono” (Alfredo Cattabiani, 1988). Anche gli Etruschi credevano che non vi fosse un confine invalicabile tra la vita e la morte e imbandivano banchetti cui partecipavano simbolicamente i defunti. I Romani dedicavano sodalizi sacri (Feralia e Parentalia) ai loro Mani. Talora si creavano dei pupazzi o statuette che venivano mangiati in occasione delle commemorazioni. I primi cristiani pure erano soliti offrire banchetti funebri nel dies natalis dei loro congiunti, sino a quando, nel secolo IV, la Chiesa li proibì, per la loro eccessiva somiglianza con i culti pagani.
Anche nel nostro paese si mangiano ancora dei cibi che rammentano le “ossa dei morti”. Ancora oggi, soprattutto in Italia meridionale, è possibile rinvenire l’usanza di aprire una “porta metatemporale con il mondo dei morti che ritornano”, naturalmente in modo simbolico. “La notte tra l’1 e il 2 novembre il popolo pugliese credeva che i morti uscivano dalle tombe per recarsi in processione presso quelle chiese dove erano soliti pregare durante la vita. Alcune donne lasciavano la finestra aperta per dare agio ai morti di entrare nelle proprie case. Nessuno si alzava per non turbare il passaggio delle anime” . Rimangono ancora tracce del banchetto funebre di antica memoria. Le donne pugliesi di taluni comuni non sparecchiano la tavola e lasciano parte del pasto appena consumato ai defunti. Questo rituale simboleggia il nutrire i morti per essere nutriti dalla loro forza, sempre presente e più manifesta all’inizio dell’inverno, al momento della semina, della penetrazione del seme nel buio invernale, nel mondo infero terrestre. Il Cristo disse ad Andrea e Filippo: “In verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Giovanni12, 24-26). In particolare, si è soliti lasciare sul desco un’arancia, del vino e del pane. E’ tradizione che va scomparendo in Puglia quella di preparare il piatto tipico della “colva”, costituito da vino cotto, grano, melograno, noci, pinoli, acini d’uva, cannella, garofano, mandorle tostate, frutti naturali che simboleggiano il passaggio da un periodo agricolo all’altro ma rappresentano anche in senso figurato le parti costituenti del corpo umano e le ossa dei defunti. Anche in Italia, dunque, sopravvivono le ultime vestigia di credenze millenarie, secondo le quali i morti portano la vita, oltre che i doni ai bambini. Le mamme siciliane raccontano ai figli che gli spiriti delle persone scomparse, durante la notte loro consacrata, si recano a visitare le dimore dei bimbi portando seco i regali.
Di recente, si sta rimanifestando l’esigenza di riconquistare un rapporto meno doloroso e più sereno con i luoghi consacrati alla morte, rammentando che essa rappresenta un momento necessario della vita.

 

 

La leggenda di San Martino di Tours

Terminato il tempo della raccolta, sparse le semenze, la terra entra nella fase letargica, nel sonno buio dell’inverno, dal quale si ridesterà a primavera. Durante i primi giorni di novembre, si continuano le semine di numerosi ortaggi e cereali. Prosegue la raccolta e molitura delle olive da olio. Si inizia il raccolto delle mele cotogne e il mosto d’uva si tramuta in vino. Secondo le tradizioni popolari, tale ultimo fenomeno avverrebbe nel giorno consacrato a San Martino, l’11 novembre. Il santo protettore dei soldati, dei viandanti, della gente di chiesa, dei soldati e dei cavalieri, dei viaggiatori, degli osti, è considerato protettore pure dei vendemmiatori. Le usanze europee connesse con il nome di San Martino dipendono in gran parte dalla posizione calendariale della sua festa, che cade nell’autunno avanzato, periodo della svinatura, tempo di abbondanza dopo tutti i raccolti ultimati e, nello stesso tempo, momento di cambiamento climatico.
La consuetudine di festeggiare l’11 novembre ha però radici antichissime.
La festa di San Martino, secondo alcuni studiosi, si connette al Capodanno celtico (Samuin) che, come detto in precedenza, si celebrava nella prima decina di giorni di novembre e simboleggiava il passaggio al nuovo anno agrario, la morte e la rinascita delle forze naturali. I Celti festeggiavano l’inizio dell’anno al momento in cui i semi appena sparsi cominciano il loro ciclo metamorfico negli inferi, dai quali risorgeranno trasformati in piantine.
San Martino di Tours (nacque a Sabaria, in Pannonia, nel 316 d.C. circa - morì a Candes, Touraine, nel 397), considerato padre del monachesimo occidentale, fu nell’alto Medioevo il santo più popolare dell’Occidente, soprattutto in Francia, dove la sua famosa mantella o cappa (chape in francese, da cui chapelle = cappella reale in cui era conservata) divenne una specie di vessillo nazionale.
Originario della Pannonia inferiore, antica terra celtica (nell’attuale Ungheria), dopo la morte a Candes, il suo corpo fu condotto a Tours, capoluogo della Touraine, ove i funerali si tennero l’11 novembre tra ali di folla. La tomba fu sistemata all’interno della cattedrale costruita in suo onore nella cittadina francese, che divenne (ed è ancor oggi) centro di studi universitari valentissimi. I pellegrini che si recavano presso il sepolcro si immergevano in un bacino d’acque terapeutiche e raccoglievano l’olio dalle lampade votive della chiesa, considerandolo taumaturgico.
La figura di Martino si diffuse soprattutto nel mondo rurale europeo, a causa del lavoro di evangelizzazione delle campagne, compiuto dal santo durante la propria vita. Sia in Italia, (tacchino, cicerchiata) sia altrove (nordeuropa: oca, dolci speziali) la festa è celebrata nelle campagne con la consumazione di cibi particolari. Essa comporta cerimonie tipiche di “capodanno”, cioè di cambiamento stagionale (si pensi all’”estate di San Martino” e al detto “a San Martino si veste il grande e il piccino”). In passato, nel giorno di San Martino, iniziava l’attività forense, quella scolastica e il lavoro dei parlamenti, si pagavano fitti e pigioni, si traslocava. Si tenevano libagioni e fiere, rallegrate con fuochi e bevute di vino. Il Santo portava doni ai bambini, scendendo dalla cappa del camino e, quando erano stati monelli, lasciava in casa una frusta, detta in Francia Martin baton o martinet. Come già detto, la consegna di doni ai fanciulli è un atto caratteristico di alcune figure, che ricorre nel periodo dell’anno che va dai primi di novembre ai primi di gennaio. In passato, l’atto del donare rappresentava un modo per ingraziarsi le potenze della vita e della morte prima della lunga notte invernale. I bambini erano considerati il mezzo per comunicare con i defunti.
La biografia di San Martino, a metà strada tra storia e leggenda è segnata da eventi eccezionali. Egli fu istradato alla vita militare dal padre, a sua volta soldato, che lo consacrò al dio latino della guerra (Martino = piccolo Marte). Divenne cavaliere, si distinse per coraggio e sagacia. Si convertì al cristianesimo dopo l’episodio mitico della donazione del mantello al povero seminudo ma non potè coronare subito il suo desiderio di farsi monaco perchè la stessa chiesa e l’opinione pubblica non vedevano di buon occhio il fatto che un militare entrasse a far parte del clero. Nel 354 partecipava alla guerra sul Reno, al servizio dell’imperatore Costanzo e contro gli alemanni. Prima della battaglia Martino rassegnò le proprie dimissioni dall’esercito. Il comandante lo accusò di viltà. Martino rispose che avrebbe combattuto da solo e armato del simbolo della croce. L’indomani era sul campo ad attendere il nemico. Ma accadde l’imprevisto: invece di attaccare, gli avversari inviarono degli ambasciatori di pace e di resa. Stupito e ammirato, il generale concesse a Martino il richiesto congedo. Tra il 350 e il 355 Martino si recò a Poitiers, dal vescovo Ilario, presso il quale svolse il delicato ruolo di esorcista. Una carica poco ambita ma che prevedeva una conoscenza iniziatica e una notevole familiarità con le cose di Dio e del demonio. Fondò poi a Ligugé il più antico monastero europeo. I miracoli di San Martino vengono narrati dai suoi biografi, i più attendibili dei quali sono i suoi contemporanei Sulpicio Severo e Paolino da Nola. Un globo infuocato (simbolo di potenza solare) si poggiò sul suo capo mentre stava celebrando una messa. Straordinarie furono le sue doti di taumaturgo, da paragonarsi a quelle di San Nicola di Myra. Resuscitò un catecumeno ed uno schiavo che si era impiccato. Ridonò la parola a una donna muta di Chartres (gli fu dedicata una delle celebri vetrate della cattedrale del luogo). Il suo biografo Paolino di Nola fu protagonista diretto di un miracolo: Martino gli restituì la vista. Il santo sottomise un orso bruno che aveva divorato un asino (figure animali che simboleggiano le forze infere). Il diavolo in persona tentò di contrastarlo senza successo. Una leggenda testimonia il legame tra il santo e la terra: mentre stava passando per Augune, nel vallese, vide l’erba bagnarsi di sangue proveniente dal suolo, secondo alcuni sgorgato dal luogo del martirio di San Maurizio (allegoria della compenetrazione tra il mondo inferiore e quello superiore, tra la natura animale ed umana e quella minerale, degli stadi o stati dell’Essere). Gli abitanti di Tours, probabilmente attratti dalla fama dei suoi poteri miracolosi, pur di averlo a capo della loro diocesi, inviarono due sicari a rapirlo. Divenne vescovo il 4 luglio del 371. Protettore degli umili, si dedicò all’opera di evangelizzazione dei territori pagani. In particolare, fece abbattere gli alberi sacri ai Celti, una azione simbolica comune ad altri santi, che conferma da un lato l’esigenza di stroncare le resistenze idolatriche, dall’altro la necessità di trasferire nel santo il patrimonio simbolico della cultura pagana, senza creare forti traumi nella popolazione. La sovrapposizione di una figura di santo a un nume pagano e la costruzione di una chiesa laddove era una volta l’ara sacrificale è un fenomeno che rientra nella strategia dei “furti sacri” teorizzata da Sant’Agostino e applicata sovente dalla chiesa dei primi secoli. Alfredo Cattabiani riporta che un giorno alcuni contadini, per vendicare il sacrilegio commesso contro gli alberi sacri (simboli assiali o polari nelle antiche culture) legarono Martino al tronco di un pino, che poi segarono, convinti che avrebbe travolto il profanatore nella caduta; ma la pianta cadde miracolosamente in senso opposto, schiacciando i persecutori. San Martino godette di una stima semidivina. In Veneto era chiamato “re divino”. In effetti, la studiosa Margarethe Riemschneider sostiene che egli avesse preso il posto di una divinità celtica venerata in Pannonia; un dio cavaliere del mondo infero terrestre, un nume della vegetazione, considerato garante del rinnovamento della natura dopo la “morte” invernale. E’ più esatto forse ritenere che si trattasse di una divinità solare. Uno dei suoi attributi simbolici era la ruota (simbolo del sole e del ciclo cosmico), cavalcava un cavallo nero e indossava una mantella di egual colore. Il nero esprime la forza della materia primordiale, della terra negra (la Al Kemi egizia) e la mantella finì per coprire le spalle anche di San Martino, santo cavaliere e guerriero. Celeberrimo e raffiguratissimo nell’iconografia è l’episodio in cui Martino dona la metà inferiore della cappa al mendico incontrato per la via. L’ideologia iconografica cristiana doveva modificare il rapporto di Martino con gli inferi che, mentre nelle culture pagane erano visti semplicemente come l’altra faccia del mondo superiore, nella religione cristiana divennero il luogo della dannazione. Per questo motivo, il mantello di Martino divenne bianco e il santo fu impegnato in aspri combattimenti col diavolo, come attestano molte leggende. Per inciso, la cappa è rimasta uno degli oggetti tipici della cavalleria. Il mantello, copertura dai rigori invernali, inquadra esteriormente la figura umana in modo globale, facendola apparire maestosa. In passato era diffusa la credenza che qualcosa dell’”aura” di chi indossa il mantello si trasmettesse allo stesso indumento e a chi lo utilizzava in seguito. La cappa è simbolo inoltre di protezione e, nella psicologia del sogno, alla figura del mantello si associa la qualità di scaldare e celare.
L’oca, servita a tavola nei paesi nord europei, è un elemento ricorrente nell’iconografia di San Martino. Il suo primo biografo, Sulpicio Severo, narra che il santo riteneva questo animale un messaggero demoniaco. Si rammenti che oche sacre e intoccabili, ritenute dai Celti messaggere dell’altro mondo, accompagnavano i pellegrini pagani ai loro santuari.
Il culto del santo si diffuse velocemente anche in Italia. San Benedetto consacrò a Martino il tempio una volta dedicato ad Apollo (dio solare), sulla vetta di Cassino. A Roma fu il primo santo non martire ad essere venerato (basilica di San Martino ai Monti, sull’Esquilino). Ad Assisi la sua storia è narrata nella prima cappella a sinistra dagli affreschi di Simone Martini. A Milano, nella basilica di Sant’Ambrogio, vescovo che lo conobbe e gli fu amico, il patrono milanese viene raffigurato mentre partecipa alle esequie di Martino a Tours. Il vescovo Felice, a metà del VI secolo, dedicò a Martino la cattedrale di Belluno. Di particolare interesse è il carnevale di Point - Saint-Martin, località in Valle d’Aosta il cui toponimo deriva da un episodio miracoloso. Il vetusto ponte ligneo, unica via di accesso al paese, fu distrutto da una piena del fiume Lys. San Martino patteggiò col diavolo la ricostruzione del ponte in cambio dell’anima del primo passante sul ponte stesso. Il demonio accettò la proposta e si diede alla ricostruzione. Terminata l’opera, pretese la ricompensa pattuita. Ma fu beffato. Il primo a passare sul ponte fu un malcapitato cane. Ogni anno, nel periodo di carnevale, gli abitanti di “Ponte San Martino” ricordano l’episodio con un corteo, giuochi e una sfilata di carri allegorici. Al termine della cerimonia il pupazzo con le fattezze del diavolo viene incendiato e gettato nel fiume.

 

Il periodo di Avvento: l’Immacolata concezione

Con il periodo detto di “Avvento (“venuta” del Figlio di Dio)” comincia l’anno liturgico cattolico. E’ un periodo di preparazione al Natale e, allo stesso tempo, il momento in cui lo spirito viene guidato all’attesa della seconda venuta del Cristo, alla fine dei tempi. Si computa dalla domenica del 30 novembre (o la più vicina a questa data) sino ai primi vespri del Natale. Dal punto di vista astronomico è il periodo di attesa del nuovo sole solstiziale, “del sole bambino destinato a crescere nel cielo sino a risorgere, dopo la crocifissione sulla linea dell’equinozio, nella parte settentrionale dello zodiaco, sfolgorando infine nella primavera e offrendo le sue energie al cosmo”. Per i Romani la parola adventus si riferiva alla divinità che, una volta all’anno, faceva visita al proprio tempio. Poi, divenne sinonimo di compleanno dell’imperatore. La chiesa cristiana d’Occidente assunse tale festività tra il VI e il VII secolo. Molte popolazioni e diverse religioni attendevano la venuta del Figlio del Signore, del Messia, prima della sua nascita a Bethlem. Egli era stato annunciato alla gente d’Israele dai profeti biblici, da Isaia e da Giovanni Battista. Era atteso dai pastori e dai Magi e, principalmente da Maria. La principale festività d’Avvento, infatti, è quella del 9 dicembre, in cui si celebra l’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria. Durante questa ricorrenza si accendono dei fuochi simbolici nella notte dell’Attesa della nascita del Cristo, Sole dell’avvenire. Sono le ultime reminescenze di culti piromagici provenienti dall’estremo passato. Il fuoco e la luce come auspicio della rinascita del sole all’inizio dell’inverno. Piccole faville o grandi falò brillano a Chiaravalle Centrale, in provincia di Catanzaro, a San Mango Piemonte vicino Salerno o a Palermo e Loreto.
Ci sono molti elementi che accomunano la Vergine Maria a San Nicola, altro personaggio molto importante del periodo avventuale, soprattutto per quanto riguarda la signoria sull’elemento acqueo, esercitata da entrambe le figure. Ma occorrerebbe un testo a parte per parlarne.

 

S. Nicola, protettore dei fanciulli

Le notizie storiche su San Nicola sono scarne ed incerte. Nato a Patara, nella Licia (attuale Turchia) tra il 255 e il 270, morì tra il 330 e il 355 e fu seppellito nella chiesa di Myra (cittadina di cui fu vescovo) l’odierno villaggio di Demre presso Kale, ove una volta sorgeva il prospero porto di Andriake, oggi insabbiato. Nel 1087, le sue spoglie furono traslate da Myra a Bari da un manipolo di audaci e spregiudicati viaggiatori baresi. Si tratta di uno dei santi più venerati al mondo e sono innumerevoli i luoghi e le chiese che recano il suo nome, come sconfinata è la produzione artistica a lui dedicata. Il primo episodio miracoloso diffusosi sotto il suo nome fu l’apparizione in sogno a Costantino il Grande, allo scopo di impedire l’ingiusto eccidio di tre generali bizantini. Nel VI secolo, Giustiniano volle consacrargli una grande chiesa a Costantinopoli. Proprio dall’antica Bisanzio il suo culto migrò verso Occidente, durante la lotta iconoclasta, proclamata dall’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico (680-741). I monaci orientali nel fuggire, portarono seco libri, effigi, codici miniati, effigi del santo, che contribuirono al propagarsi del culto, anche perchè molte icone producevano autonomamente miracoli e prodigi. Tra il IX ed il X secolo, cessata la furia dei distuttori di immagini, il culto di San Nicola raggiunse l’appena evangelizzata Russia, che lo accolse con l’appellativo di Ugondniker (soccorritore) e ne fece il suo santo più venerato.
Dopo la traslazione del corpo a Bari, con gli scrittori normanni, la sua leggenda subì delle contaminazioni con le storie del Mago Merlino e di Artù. San Nicola cominciò ad essere conosciuto anche nelle regioni settentrionali d’Europa, dove il suo nome si contrasse in Claus. La sua icona era sulla nave che condusse i primi emigranti olandesi nel nuovo mondo, a fondare Nuova Amsterdam. In America, col passare del tempo e il mutare delle esigenze lo ieratico veglio di Licia si trasformò nel suo alter ego: Babbo Natale. Per la Chiesa cattolica, dal 1969, S. Nicola non è più un santo di rilevanza generale: la sua memoria è stata degradata da obbligatoria in facoltativa. Per la chiesa di rito ortodosso resta il santo più venerato e celebrato con due festività. E’ patrono della Grecia, della Russia e della Lorena, di Bari, Istanbul, Venezia, Amsterdam e Manhattan.
Hagios Nikòlaos (santo vincitore del popolo), come veniva chiamato in greco, aveva comunque degli antecedenti mitici nelle culture mediterranee precristiane. Nicola prese il posto che competeva ad alcune divinità pagane, di cui perpetuò i riti della fertilità e della guarigione, della navigazione e della fanciullezza. La città di Myra era situata nel massiccio montagnoso sulla costa meridionale dell’Asia Minore. Nel mediterraneo orientale, sempre esposto alla pirateria, a tempeste violente ed a battaglie per l’egemonia sui mari, tali approdi erano sede di culti appropriati. Verso il 6 dicembre (data presunta della morte di Nicola) cominciavano i temporali invernali, si interrompeva la navigazione ed i marinai propiziavano le divinità marine: le feste in onore di Poseidone erano diffuse. Il calendario giuliano era solare come il vigente gregoriano ma quelli greci, semitici ed egizi erano lunari e, quindi, oscillavano in relazione al sole. Altra divinità pagana in rapporto con S. Nicola o, meglio, con il suo mitema, dovette essere Artemide-Diana, la più celebre delle coste ioniche. L’Artemide efesina (associata alla luna e navigante nel cielo stellato, come l’Iside egizia) era anch’essa considerata patrona dei mari. Il santo taumaturgo, alfiere della nuova religione monoteista, assunse ben presto il posto dei numi atmosferici e marini che gli preesistevano. Uno dei miracoli più famosi di Nicola è appunto legato alla navigazione ed al controllo degli agenti atmosferici e viene riconosciuto col nome di “Marinai” o “La tempesta placata”. Agli inizi, i culti pagani erano visti con paura dai cristiani ma dopo il V secolo cominciò la distruzione dei templi e la loro progressiva sostituzione con le chiese cristiane. Molti luoghi una volta consacrati ad Artemide e Posidone divennero in seguito dimora di culto per Nicola. A conferma di ciò, alcuni degli episodi miracolosi attribuiti a S. Nicola, come quello denominato “Vasetto d’olio”, vedono il santo impegnato in duelli di magia ed astuzia contro Artemide-Diana. Da quest’ultima divinità pagana sortì, attraverso numerose metamorfosi, anche un altra figura invernale di dispensatore di doni: la Befana.
San Nicola, protettore dei fanciulli, è universalmente noto come donatore. Nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine (1228-1298) si narra che salvò dalla prostituzione tre fanciulle povere, facendo cadere nella loro casa, attraverso una finestra, tre bisacce d’oro (le tre sfere riprese dall’iconografia tradizionale). Ripetè in altre occasioni tale gesto. Michele Archimandrita racconta l’episodio in cui il Santo ottenne in regalo una parte del grano trasportato su alcune navi mercantili, allo scopo di salvare la città di Myra dalla carestia, distribuendolo alla comunità di cui era vescovo. Il grano sottratto ricomparve poi miracolosamente nella stiva delle imbarcazioni. Alla azione donativa di Nicola si riconduce anche il miracolo denominato delle “tortine”. Queste ultime, offerte da un pover’uomo in voto al Santo, si trasformano in pietre preziose. Ancora, in una leggenda di origine francese, San Nicola “ridona” la vita a tre bambini fatti a pezzi da un oste malvagio.
Un filo sottile ma resistente unisce la figura del santo veglio di Myra a molti personaggi, come i Magi, conosciuti quali dispensatori di abbondanza, che apparentemente presentano caratteristiche ed origini del tutto eterogenee. Secondo l’antropologo Alfonso M. Di Nola, i “portatori di doni” vanno interpretati all’interno della dialettica propria del donare e del fondamentale carattere di reciprocità che in vario modo lo accompagna. Lo studioso tedesco Sartori sostiene che l’atto del regalare ai bambini, con la mediazione di una figura mitica o un essere superiore, sentito come reale dall’immaginario collettivo, determina un corrispettivo reciproco, definito di tipo “magico”, consistente in un esorcismo del male futuro. Lo scambio apotropaico avviene in questi casi fra un bene concreto e uno astratto, rappresentato da una protezione assicurata per tutto l’anno. Talora il dono è il corrispettivo di un comportamento docile e obbediente dei bambini. La figura immaginaria può negarlo o sostituirlo con oggetti di valenza negativa (ad esempio, il nero carbone portato dalla Befana). I donatori leggendari esercitano, così, la fondamentale funzione pedagogica di liberare i genitori dall’incombenza di un controllo continuo e assumerlo in proprio. Quando l’immagine punitrice o benefattrice scompare, vuol dire che si è maturi per passare al mondo delle responsabilità autonome, tipico degli adulti, a prescindere dall’intervento regolatore tra il bene ed il male esercitato dai misteriosi dispensatori di premi e punizioni.
San Nicola è legato anche ad un’altra festività paranatalizia: il giorno dei Santi Innocenti (28 dicembre). Nel Medioevo, il 6 dicembre, i seminaristi usavano eleggere fra loro un piccolo vescovo (episcopellus) e i suoi cappellani, che sarebbero stati protagonisti, il 28 dicembre in chiesa, di una cerimonia parodistica, detta dell’episcopus puerorum o innocentium (vescovo dei fanciulli o degli innocenti). Il fanciullo eletto a vescovello si comportava come un vescovo autentico. Chierici e preti, mascherati, inscenavano durante la Messa una sarabanda carnevalesca, condita da scherzi e lazzi da postribolo Dopo l’ufficio divino, si abbandonavano ad una danza sfrenata dal chiaro sapore orgiastico. La Chiesa solo nel XV secolo riuscì a debellare tale profano spettacolo, che tuttora perdura in Spagna.
Anche qui, per trovare una spiegazione allo strano fenomeno descritto, bisogna ricordare il rapporto tradizionale esistente tra le figure mitiche dell’inverno e i culti solari e solstiziali. Si è parlato, già nella parte introduttiva, dell’inversione delle regole come sistema primitivo per scongiurare l’avvento del caos, minacciato dalla notte invernale. Durante le feste dei Saturnali, celebrati nella Roma imperiale tra il 17 e il 23 dicembre, veniva eletto un rex Saturnaliorum, che regnava per una settimana fra ogni genere di licenziosità, orge e banchetti. Anche allora i ruoli consolidati si invertivano. Il giuoco, proibito durante il resto dell’anno, veniva ammesso e favorito: esso era l’espressione della forza del destino voluto dagli dei, oltre che l’occupazione abituale dei fanciulli. Era quello il periodo consacrato a Saturno, lontano vagheggiamento di un tempo mitico, l’Età dell’Oro in cui il dio italico aveva regnato. L’origine dei Saturnali era avvolta nel mistero e diverse ne sono le spiegazioni. Sta di fatto che, durante queste feste, si vendevano e donavano candele di cera e statuette d’argilla e veniva fusa la statua aurea di Saturno ai piedi del Campidoglio, a simboleggiare il ritorno di una effimera e brevissima Età dell’Oro. Secondo l’interpretazione del simbolista francese René Guénon, il dio latino Saturno va associato al dio vedico Satyavrata , la manifestazione divina che crea e ricrea il cosmo ad ogni ciclo, il nume solstiziale del passaggio dal caos, derivante dal disfacimento del vecchio mondo, alla luce del nuovo ordine cosmico. Alla fine dei Saturnalia il rex Saturnaliorum veniva simbolicamente ucciso, allo stesso modo in cui doveva estinguersi il vecchio tempo (il dio Kronos=Tempo, in seguito identificato con lo stesso Saturno) per cominciare la nuova era. Così, dopo il 28 dicembre, veniva “spogliato anche l’episcopus puerorum medievale.
La studiosa Margarethe Riemscheider sostiene che in San Nicola e negli altri personaggi affini che distribuiscono regali nel mese di dicembre si sia trasferita la funzione di riiniziatore della storia che una volta era propria del dio Saturno. L’attesa della venuta di San Nicola e degli altri donatori equivarrebbe all’auspicio di una buona sorte.

 

Lucia, nata con la luce del giorno

Alla data del 13 dicembre in ambito cristiano si festeggia Santa Lucia, una martire, nata a Siracusa, probabilmente nel 283, da famiglia possidente e altolocata. La funzione specifica assolta da questa figura è notoriamente di protezione della vista. Tale qualità mitica le viene attribuita, secondo alcuni, per derivazione dal nome, che sembra provenire dal latino Lùcia, femminile di Lùcius, la cui radice è lux (luce) e che significherebbe “nata con la luce del giorno”. Secondo una leggenda posteriore alla sua passio (il racconto del suo martirio), Lucia ebbe a strapparsi gli occhi per evitare di cedere alle malie del peccato (le lusinghe amorose del fidanzato). Tuttavia, è evidente che la vera spiegazione del patronato sulla vista sta nella rinuncia alla luce materiale, a causa dell’accecamento, e nella contemporanea conquista della luce spirituale della fede, per vedere la quale non si ha bisogno degli occhi. Lucia compie una scelta: dona a Dio i propri organi fisici della vista, in cambio della vera rivelazione. Come tutti i grandi iniziati, la santa muore come essere materiale e risorge nella luce divina. Indirettamente, Lucia viene considerata patrona della luce e la sua ricorrenza viene collocata nel periodo immediatamente antecedente al solstizio invernale, quando la luminosità del giorno, almeno in Europa, è più ridotta.
Lucia fu martirizzata durante la persecuzione di Diocleziano, nel 304, a soli 21 anni. Pare che donò tutti i suoi averi ai poveri, cagionando le ire del proprio fidanzato, che poi l’avrebbe denunciata alle autorità come cristiana. Il carnefice l’avrebbe uccisa con un colpo di spada sul collo. La sua attività donativa è provata dunque dalla biografia, con l’episodio della rinuncia alla vista, ai piaceri e ai beni materiali in favore dei diseredati. Di qui derivò la leggenda di Lucia, che consegna i regali su di un’asina bianca in alcuni paesi del Triveneto e del Bergamasco. La santa esercita in tali sue visite un ruolo marcatamente etico-pedagogico, in linea con i caratteri del suo personaggio storico. Tant’è vero che ai bimbi cattivi porta una bacchetta, simbolo di rigore e punizione. Il culto della santa siciliana è diffuso nella tradizione austriaca, ceca e slovacca, danese e scandinava. Nelle case svedesi le giovinette, con una corona di sette candele accese sul capo, servono la colazione all’intera famiglia, intonando canzoni natalizie. Al contempo, le fanciulle raccolgono e portano doni nelle case, negli asili e negli ospizi. Lucia viene vista come regina (la corona), della luce, fonte di speranza nel lungo inverno nordico. Anche in questo caso, si può cogliere una persistenza di elementi simbolici antichissimi e connessi alla scomparsa e rinascita della luce. Tra l’altro, nel XIV secolo, a causa di errori di calcolo, la data del solstizio invernale era stata collocata proprio al 13 dicembre, dies natalis della santa. Ciò avrà contribuito a rinsaldare il legame di “continuità nella eterogeneità” tra il culto cristiano e le primitive credenze. Santa Lucia e le piccole faville accese in suo onore, le fanciulle svedesi biancovestite che servono il pasto ai parenti (si ricordi l’utilizzo primitivo del cibo per entrare in contatto coi defunti o eccedere a scopo propiziatorio) conservano un barlume ancestrale dei culti del fuoco, molto praticati nella scandinavia primitiva. Nell’iconografia Lucia appare con diversi attributi (oggetti simbolici): la palma, simbolo del martirio, il pugnale o spada che la trafisse, la lampada, il recipiente contenente gli occhi cavati. “E’ incorniciata da un ricco mantello, ingemmata come una regina, coronata di fiori, quasi epifania della luce divina o traduzione cristiana della dea Aurora”. Secondo alcuni studiosi, Santa Lucia potrebbe essere la variante cristiana di un’ipotetica linea femminile di figure (astrali o telluriche) di donatrici della fertilità, che parte dalla dea Luna, passa attraverso la babilonese Ishtar, Iside Astarte, Artemide, Strenia, Diana, e giunge sino alla Befana. Tale linea matriarcale si congiungerebbe ed intersecherebbe ad una linea maschile e solare: Dumuzi - Osiride - Giano - Re Magi - Gesù bambino - San Nicola - Babbo Natale. In verità, nelle civiltà arcaiche i culti femminili e maschili, come quelli astrali e terrestri, si integravano e compenetravano, in una visione in cui gli opposti coincidevano perfettamente.
Carlo Sacchettoni ricorda che i giorni che separano la festa di Santa Lucia da quella del Natale sono dodici. Come sono dodici i giorni che vanno dal Natale alla Befana. Nell’alto Medioevo era credenza popolare che le dodici notti tra Natale e l’Epifania fossero teatro di incantesimi e di misteriose presenze. La teoria che coglie questa curiosa simmetria, come quella delle supposte linee di continuità tra le figure donative, pur andando forse nella direzione giusta, tralascia moltissimi altri aspetti che compongono i caratteri archetipici dei personaggi dell’inverno. In Svezia, Lucia è chiamata “la vergine saggia”: la sua funzione non è solo quella di apportatrice di luce ma anche - la sua storia leggendaria ne è conferma - di protezione della purezza infantile. Questo carattere la avvicina al santo Nicola di Myra, famoso per aver segretamente donato tre borse di danari ad altrettante fanciulle povere destinate alla prostituzione. San Nicola e Santa Lucia sono accomunati anche dalla capacità di risolvere le carestie. Come si può notare, la trattazione dei problemi mitici e tradizionali deve tenere conto di tutti gli aspetti e le variabili in gioco e può pervenire facilmente a delle conclusioni affrettate o non esaustive. La difficoltà ulteriore sta nel decifrare correttamente le polisemie e le polivalenze simboliche, inserendole nei rispettivi contesti culturali e geografici. La palma che imbraccia Lucia, ad esempio, non è solo il simbolo del martirio individuato dai primi cristiani. Nelle zone aride meridionali che si affacciano sul Mediterraneo, la palma da dattero era considerata sacra al dio del sole, Assur. Gli egizi deponevano rami di palma sui sarcofagi dei defunti. Gesù venne accolto a Gerusalemme con lo sventolio di rami di palma. Il nome greco della palma phoinix richiama la mitica fenice, l’uccello che rinasce dalle proprie ceneri, proprio come le divinità solari del solstizio. Per via femminile (a voler applicare la ipostasi matrilineare), la dea Nike (lat. Victoria) veniva rappresentata con in mano un ramoscello di palma. In Egitto, inoltre, Hator, la dea del cielo, era chiamata “la signora della palma da dattero”. Si potrebbe continuare ancora a lungo con l’analisi simbolica, ma non credo che si raggiungerebbe alcuna nuova certezza. Quanto si è detto di più semplice appare sufficiente a meglio comprendere l’atmosfera magica e misteriosa dell’inverno e dei personaggi mitici che lo caratterizzano.

 

Il Natale di Gesù

Dionigi il Piccolo, cronologo del Cristianesimo, colloca nel periodo astrale del solstizio d’inverno la nascita di Gesù, facendola coincidere con la festa pagana del sole nascente, il Dies Natalis Solis invicti, introdotta dall’imperatore Aureliano nel III secolo.
Nei Vangeli non v’è alcuna indicazione della data di nascita del Figlio di Dio. E’ cosa acquisita che una festa della natività di Gesù Cristo non era conosciuta dai Padri dei primi tre secoli e che nessuna tradizione autorevole fissa il giorno della nascita. Nel terzo secolo si collocava al 6 di gennaio o intorno all’equinozio primaverile (25 e poi 21 marzo). La festa odierna del Natale è di origine romana e veniva celebrata il 25 dicembre nel IV secolo sotto papa Liberio. I cristiani vollero così sovrapporre e sostituire alla festa pagana del sole vittorioso la festa della nascita del vero sole dell’umanità: il Cristo. Ma alcune tradizioni sono difficili da estirpare, soprattutto quando corrispondono ad un uso millenario ed alle esigenze delle popolazioni. Sta di fatto che ancor oggi nella notte di Natale bruciano ceppi e ardono fuochi (da ultimi quelli pirotecnici) e falò, sopravvivenze di quelli accesi in antico per il solstizio. Da sempre è in uso a Natale lo scambio di regali, oggi pallida memoria consumistica del primitivo dono apotropaico. Molte strutture megalitiche risalenti almeno al periodo neolitico, furono costruite in maniera che al momento dei solstizi i raggi solari illuminassero un punto particolare o entrassero nell’angusto spazio tombale. I morti venivano illuminati dalla nuova luce. Di questi megaliti, oltre che in Bretagna, Inghilterra ed Irlanda, abbiamo testimonianze cospicue anche in Puglia.
L’immaginazione mitologica cristiana, nelle feste natalizie, recepisce simboli e tradizioni precedenti, in particolare della antica religiosità cosmica, che vengono sentite, nei loro aspetti compatibili, come fenomeni di preconizzazione di Gesù. Lo stesso albero di abete, presente nella festa, è l’equivalente dell’albero cosmico, che in ogni tradizione rappresenta la manifestazione divina nell’universo. Esso individua lo stesso Cristo, il centro o asse dell’universo. In effetti, fin dall’antico testamento, Gesù era atteso dai profeti come Luce e Sole dell’umanità. Per cui, secondo la mentalità mitico-simbolica vigente nei primi secoli cristiani, la scelta del momento astrologico solstiziale dovette sembrare del tutto legittima. Nel secolo V, tuttavia, papa Leone Magno sentì il bisogno di ricordare che i cristiani non adoravano il Sole ma un dio immanente e trascendente allo stesso tempo. Il Figlio di Dio era egli stesso il Creatore e non doveva essere confuso con una creatura, per quanto straordinaria come il sole. Gesù è il dono più grande di Dio. Sant’Agostino parlava del Natale come di uno scambio tra l’uomo e Dio, in virtù del quale Dio si è fatto uomo e l’uomo è diventato Dio.
Natale è un punto culminante nell’evoluzione di ogni persona e simboleggia qualcosa che non è ancora avvenuto ma che deve succedere. La parola inglese Christmas è molto indicativa: significa “fare Cristo”. Natale deve essere l’occasione per far nascere Cristo nella nostra coscienza, ridestare la parte solare, il Sè spirituale. La nascita di Gesù rappresenta il risveglio del nostro centro psicospirituale, l’apertura del nostro cuore. Per ottenere questa grande trasformazione, occorre che l’io materiale si eclissi e muoia con tutti i suoi vani egotismi, al fine di dar luce a un uomo nuovo, rigenerato dal calore dell’amore. Il Presepio può essere interpretato secondo il medesimo approccio: è la rappresentazione di un evento che si attende nel nostro spirito, l’annuncio di qualcosa che sta per accadere nel micro e nel macrocosmo. La grotta è un simbolo antichissimo, è l’emblema dell’utero materno. Maria, vestita di blu, rappresenta la polarità femminile (la grazia divina che scende dall’alto); Giuseppe, vestito di rosso, è la polarità maschile (lo sforzo umano che sale dal basso). “Gesù avvolto in bianco e oro raffigura la coscienza spirituale che scaturisce dalle due polarità. L’asino simboleggia l’immagine e l’ego umano, mentre il bue, l’energia sessuale: queste forze non devono essere distrutte, ma impiegate per favorire la nascita e l’espressione della coscienza spirituale” (Peter Roche De Coppens).

 

BABBO NATALE

Babbo Natale può definirsi il prodotto immaginifico finale di una contaminazione culturale tra i popoli del nord e del sud dell’Europa, cominciata nei primi secoli del primo millennio con le invasioni barbariche. Egli è una figura ibrida, frutto dell’incrociarsi delle tradizioni cristiane con i miti nordici.
Claude Lévi Strauss definisce Santa Claus/Babbo Natale (Père Noel, in francese) “figura di convergenza” tra differenti miti e leggende, propri di culture tra loro eterogenee. Il nome Claus, riferito a San Nicola, appare presto nella storia dell’Europa settentrionale, probabilmente diffuso dalla Russia, epicentro del culto nicolaiano. Si presenta come Sinterklaas in Olanda, Zinterklos nella Renania settentrionale, Stunner - Klaas nella Frisia orientale, Klawes in Hannover, St. Niklas nella svevia cattolica, Sannachlas in Svizzera, ecc. Le caratteristiche del Santo, dopo la Riforma protestante, perdono progressivamente la propria componente religiosa e la nuova figura viene designata col nome femminile di Santa Claus. Il compito di distribuire i doni venne allora attribuito al Christkindel o Kris Kringle, Gesù Bambino, una figura sacra molto più accettabile di quella dell’antico vescovo, un po' troppo folcloristica e in odore di paganesimo per l’etica protestante. Dopo la seconda guerra d’indipendenza, i coloni olandesi portano l’immagine ed il culto di Santa Claus nel nuovo mondo, ove fondano New Amsterdam (l’odierna New York). Nel 1812 lo scrittore americano Washington Irving, in un operetta sulle origini di New York, parla di Santa Klaus come di un vecchio che vola di notte su un carro fatato, lasciando scivolare regali dai camini delle case. Il vecchio San Nicola prosegue il proprio processo metamorfico con un altro scrittore, Clement Clark Moore, il quale, durante la notte di Natale del 1822, inventa una poesiola per i bambini, destinata ad un grande successo: A visit from St. Nicholas. In questa filastrocca Babbo Natale (Saint Nick) assume i suoi caratteri fondamentali: la bonarietà e giocosità, la capacità di volare sulla slitta guidata da renne. L’abito rosso (comune a San Nicola e ai Magi) gli viene attribuito in seguito dalla tradizione. Il mantello vescovile o la tunica da re diventa un giubbone ornato di pelliccia, molto somigliante alla tenuta degli elfi dei boschi. La mitra episcopale si trasforma in un cappuccio, simile a quello degli gnomi delle foreste nordiche (ma anche al cappello frigio di uno dei Magi e degli antichi alchimisti). Nasce così Babbo Natale, cui i bimbi americani inviano (solo tra il 1914 e il 1945) la cifra record di quattro milioni di lettere l’anno. Il ritorno in Europa del mito consumistico e universale che Babbo Natale è poi diventato, si può attribuire alla fantasia di Thomas Nast (il disegnatore americano che a partire dal 1863 ne forgiò il nuovo “look”), e agli intenti massificativi della Coca - Cola, che si servì dell’immagine del vecchio bonario per la sua pubblicità. Attualmente può individuarsi nella Finlandia il centro attuale della credenza del vegliardo portatore di doni.
A ben guardare, lo straordinario successo di Babbo Natale in Europa non dipende esclusivamente da fattori economico-commerciali. In realtà, il vecchio donatore non è stato passivamente assimilato dagli Europei, sostituendo le antiche consuetudini. Al contrario, ha funzionato da catalizzatore, riportando in auge le usanze dimenticate del passato, secondo un meccanismo che l’antropologo statunitense Alfred Kroeber descrive come “diffusione per stimolo”. Secondo alcune interpretazioni psicoanalitiche, Babbo Natale è un archetipo. Rappresenta l’essere umano realizzato, ciò che l’uomo diventa al culmine della sua maturità. Tutte le culture hanno ideato personaggi analoghi: “nel giudaismo mistico Babbo Natale non è altro che “il veglio dei giorni” della Cabala, l’immagine di Keter, del centro psicospirituale della testa” (Peter Roche De Coppens). A dire il vero, nel caso dell’odierno Natale, i veri sacerdoti che amministrano la festa sembrano essere diventati i personaggi televisivi e i garfici pubblicitari, oltre che le multinazionali del regalo. Non si può certo ritenere che la straordinaria forza spirituale dell’evento sia rimasta intatta. Ma si sa, ogni epoca ha i suoi miti, le sue favole, i suoi eroi.

 

In viaggio verso Gesù, guidati dalla stella

Matteo (l’Evangelista che faceva l’esattore delle imposte), è l’unica fonte canonica a narrare in aramaico (antica lingua volgare palestinese) l’episodio dei Magi: “Dopo che Gesù nacque a Betlemme in Giudea, al tempo del re Erode, ecco giungere a Gerusalemme dall’Oriente dei Magi, i quali domandavano: dov’è il neonato re dei Giudei? Poiché abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti ad adorarlo. All’udir di ciò, il re Erode fu preso da spavento e con lui tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo e domandò loro: Dove dovrà nascere il Messia? Essi gli dissero: A Betlemme di Giudea. Infatti così era stato scritto per mezzo del profeta... Allora Erode chiamò segretamente i Magi e chiese ad essi informazioni sul tempo esatto dell’Apparizione della stella; quindi li inviò a Betlemme dicendo: Andate e fate accurate ricerche del bambino, in modo che anch’io possa andare ad adorarlo. Essi, udite le parole del re, si misero in cammino. Ed ecco: la stella che avevano vista in Oriente li precedeva, finché non andò a fermarsi sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella furono ripieni di straordinaria allegrezza; ed entrati nella casa videro il bambino con Maria sua madre e si prostarono davanti a lui in adorazione. Poi aprirono i loro scrigni e li offrirono in dono oro, incenso e mirra. Quindi, avvertiti in sogno di non passare da Erode, per altra via fecero ritorno al proprio paese” (Matteo 2,1-12).
Tutto qui. Dalle parole di Matteo non emergono i loro nomi né quanti fossero né il significato dei doni recati. Forse proprio tale enigmatico silenzio spiega perchè, dopo duemila anni, il mistero irrisolto dei sapienti evangelici continua ad affascinare. Il fatto è che la scarna testimonianza di Matteo viene abbondantemente rimpinguata dalla vasta letteratura apocrifa sull’Epifania (Protovangelo di Giacomo, Vangelo dell’Infanzia Armeno, Vangelo dello Pseudo Matteo). E, soprattutto, dalle numerose fonti leggendarie, sviluppatesi da un primitivo modello siriaco-iranico, e proliferate nell’ambito della cultura esoterica (Libro della Caverna dei Tesori, Vita di Adamo, Rivelazione di Adamo al figlio Seth, Cronaca di Zuqnin), che hanno fatto dei Magi dei grandi iniziati alla scienza ermetica. In occidente, ha avuto grande importanza l’Historia Trium Regum del frate carmelitano tedesco Giovanni da Hildesheim (1310-1375), sorta di sintesi delle tradizioni orientali che ha arricchito di episodi fantastici la loro biografia leggendaria.
La parola Magh, in pelvi e zend, lingue dell’antico Oriente, significa “sacerdote in possesso della sapienza donata”, “dominatore degli alti misteri”. Secondo Erodoto, i magoi erano una società segreta di origine persiana; per i greci e i latini la magia era l’arte dei seguaci di Zarathustra, capaci di interpretare i movimenti e il significato degli astri Non a caso, il viaggio dei Magi fu guidato dalla stella (una cometa, una nova o una singolare congiunzione astrale?), da sempre considerata segno di un annuncio eccezionale, manifestazione divina. A dire il vero, i calcoli degli odierni astronomi, collocano l’inizio dell’evento astrale diverso tempo prima della nascita del Cristo: forse un anno o due. Le più diffuse tradizioni orientali affermano che i Magi ebbero l’annuncio dell’avvento del Salvatore sul “Monte Vittoriale” . Questo luogo sconosciuto, sacro per la religione mazdaica, era la dimora di dodici sapienti, che interrogavano gli astri in attesa del Messia, nonché il punto ove il profeta Zarathustra scrisse il libro dell’Avesta. E’ probabile che la patria dei Magi debba individuarsi nella città di Sauva in Iran, indicata da Marco Polo quale sede dei loro sepolcri, non lontana dal tempio del fuoco di Takht - i - Sulaiman, epicentro della cultura zoroastrica.
Si trattava di sacerdoti o di re, come riportato dalla tradizione cristiana? L’abbigliamento dei sapienti (mantello e cappello frigio), proprio di alcune caste sacerdotali orientali, conferma che doveva trattarsi di iniziati iraniani, migrati verso Occidente, anche se la ricchezza delle vesti sembrerebbe far propendere per la tesi della loro dignità regia. Va chiarito che la presunta regalità dei Magi è totalmente apocrifa, scaturita dalla sovrapposizione di più elementi simbolici, e non concorda con gli altri attributi, prettamente misteriosofici, dei saggi d’Oriente. Inoltre, l’attesa di un Dio “Figlio del Sole” era tipica dei culti dei sacerdoti iraniano siriaci, celebrati col fuoco, durante il solstizio d’inverno. Nell’antica Roma, come più volte ricordato, il 25 dicembre si considerava il giorno della nascita del sole, festa pagana di origina persiano mithraica, perpetuata da molti rituali eliolatrici. Secondo San Girolamo, nella grotta di Bethlemme, in tempi remoti, si adorava il dio solare Adone-Tamuz. In questa prospettiva, i Magi dovettero essere un ottimo anello di congiunzione tra il paganesimo e il cristianesimo, tra le religioni piromagiche orientali e la nuova fede nel dio unico.
Altro problema è stabilire quanti fossero i Magi e quali fossero i loro veri nomi. Il Vangelo dell’Infanzia Armeno parla di tre re-fratelli. Nel cristianesimo popolare orientale si allude ad un misterioso quarto mago, che non giunse mai a Bethlemme, in quanto si smarrì lungo il percorso. Qualcuno ha pensato ad una spia di Erode o, addirittura, al più potente del gruppo, rimasto sconosciuto per poter conservare indisturbato segreti tesori. Nello Opus imperfectum in Matthaeum (IV secolo d.c.) i Magi sono dodici, come gli Apostoli. I nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre appaiono solo dopo il VI - VII secolo. Il Vangelo degli Ebrei e Nazareni li conosce come Melco, Caspare e Fadizzarda. L’apocrifo siriaco Gadla Adam nomina Hor, Basander, Kursundas. Melchiorre è ritenuto il più anziano, Baldassarre il mediano, Gaspare (considerato negroide da alcune tradizioni) il più giovane. I tre saggi rapresentano le tre età dell’uomo e, secondo alcuni, i tre stadi della Grande Opera alchemica: nigredo, albedo e rubedo. Una prova di tale significato dei sapienti sarebbe nell’opera di Giorgione denominata “I tre filosofi” e custodita a Vienna.
I doni offerti al Messia hanno un complesso valore simbolico e rispecchiano la triplice natura del Cristo: l’incenso al dio, l’oro al re, la mirra all’uomo-mortale. Invero, i tre doni si prestano pure ad un’interpretazione esoterica: “l’oro degli alchimisti, l’incenso dei sacerdoti egizi, la mirra della taumaturgia mesopotamica e buddista”.
In effetti, l’oro è sinonimo di luce e splendore in tutte le simbologie magico religiose. Il raggiungimento o ritrovamento dello stato aureo equivale all’avvenuta trasformazione dell’uomo in Dio. Era l’obiettivo finale della metallurgia alchemica. L’incenso è da sempre associato alle rituarie divine. La mirra è un elemento simbolico che accomuna i Magi a San Nicola di Myra (che in turco significa mirra). San Nicola è un mirablita (un effusore di manna o mirra, in greco muron). Le proprietà di questo liquido si sono da sempre considerate taumaturgiche. In antico, i defunti venivano cosparsi di tale unguento prima di essere seppelliti.
Davvero singolare è la versione riportata dai Codici Hereford e Arundel, nei quali si asserisce che Erode affidò ai Magi anche un diadema e un anello da portare al Figlio di Dio: entrambi gli oggetti erano sacri per il Pantheon persiano. I corpi dei Magi furono tra le reliquie oggetto della ricerca medievale. Elena di Costantinopoli, madre di Costantino il Grande, ritrovò le spoglie mortali degli antichi sapienti, considerate oggetto di culto e fonte di protezione divina, e le donò alla città di Milano. Federico Barbarossa le rubò, per portarle a Colonia. Successivamente, il capoluogo lombardo riuscì a riottenere alcuni frammenti delle reliquie, che tornarono ad essere venerate nel giorno dell’Epifania.

Enzo Varricchio

 

L’Epifania e la notte della Befana

La chiesa cristiana d’occidente celebra il 6 gennaio l’Apparizione di Gesù ai Magi e la consegna degli enigmatici doni. Nella visione orientale, invece, vera Epifania è considerata solo quella del Battesimo di Cristo nel fiume Giordano. Personificazione mitica dell’Epifania, la Befana contiene elementi simbolici presenti in tutte le figure di donatori leggendari, che provengono da età molto remote e sono riconducibili ai riti ciclici e solstiziali delle popolazioni primitive.
Molte culture la considerano una vera strega. La Befana, col suo carico “eventuale” di carbone, dal significato di monito e castigo, conserva indubbiamente una funzione pedagogica per l’infanzia. E’ un “mediatore mitico” tra il mondo degli adulti, quello dei fanciulli e, talora, dei morti. Il carbone corrisponde ad una simbologia educativa, in quanto immagine del peccato che annerisce l’anima. Inoltre, dalla quantità ricevuta nella calza, il bambino ottiene il metro per valutare il proprio comportamento. Questo ruolo punitivo ne fa un personaggio in apparenza diverso dagli altri “dona ferentes”. Il carbone è materia nera, opera al nero, che collima con l’inferno, luogo in cui, secondo talune leggende, dimora la nostra vegliarda.
Quali sono le origini della Befana? Comunemente si ritiene che la Befana, personificazione mitica dell’Epifania, abbia tratto origine dall’immaginario medievale, popolato da numerose figure di streghe (Satia, Abundia, Erodiade, Salomé), sempre pronte a darsi convegno nelle notti propizie alle evocazioni. In realtà, la insospettabile vecchina non trova i suoi oscuri natali nella pur misteriosa Età di mezzo ma rappresenta un vero e proprio archetipo culturale, una “figura di convergenza” fra diversi miti e leggende, che affonda le sue radici molto indietro nel tempo, prima del Cristianesimo, nei riti del solstizio d’inverno, nei culti solari, nelle diverse manifestazioni proprie delle civiltà mediterranee e di quelle nordiche. Innanzitutto, va detto che la Befana è certamente in rapporto con la dea Diana e il culto della fertilità a lei connesso. Nell’antica Roma si riteneva infatti che, durante le notti tra il 25 dicembre e il 6 gennaio, misteriose figure femminili volassero per i campi per propiziare un buon raccolto.
Presso le popolazioni germaniche la dea classica Artemide-Diana si trasformò nella strega Frau Holle, personaggio positivo e negativo al contempo, benigno verso i bambini e i trapassati prematuramente, ma implacabile verso i cattivi. Talora volava sulla scopa, talaltra su un carro trainato da aurei destrieri. Nelle zone meridionali della Germania, questa figura femminile prese il nome di Berchta, signora della notte dell’Epifania, terrifico spauracchio, che girava per le case, chiedendo il rispetto di usanze e rituali ben precisi. Le autorità religiose cercarono di sradicare queste superstizioni ma, nonostante i divieti, le demonizzazioni e i roghi, queste figure leggendarie sopravvissero, magari con altri nomi, e si diffusero nelle aree montane. Ai nostri giorni, in Svizzera troviamo la strega Posterli e in Tirolo la Zuscheweil. Queste figure, maligne ma non temibili, vengono esorcizzate accendendo grandi fuochi (in Veneto è ancora diffusa l’usanza, forse di matrice druidica, di bruciare la vecia su roghi improvvisati, che rammemorano i riti piromagici dell’estremo passato). Scendendo dalle Alpi verso il Sud, la vecchia diviene Befana e incarna il personaggio della maga buona, anche se brutta, che esercita l’arte magica a buon fine.
Per concludere sul tema della Epifania, riepiloghiamo i contenuti fondamentali del presente saggio, dedicato alle figure mitiche di dispensatori di doni.
Le feste dell’Epifania sono ancora più antiche di quelle in onore di Artemide-Diana. Fin dai tempi più remoti, l’uomo ha osservato l’alternarsi del giorno e della notte, del sole e della luna, il ciclo delle stagioni, come analogia della vita e della morte, cogliendo nel Sole il principio della vita e nel gelo lunare dell’inverno la mortale attesa prima della rinascita. Il culto del sole o di altre divinità solari era diffusissimo tra i più diversi popoli (Maya, Incas, Atzechi, Olmechi, Celti, Sumeri, Assiri, Babilonesi, Egizi, Greci, Romani), talora in coppia alla luna, talaltra in opposizione ad essa. Solitamente aveva connotazioni maschili (Ra, Mitra, Apollo) ma alcune religioni (arabe, semite) vi vedevano una divinità femminile, sovrapposta o associata ai riti della fertilità. Il periodo dell’anno che va dalla fine di ottobre ai primi di gennaio (a parte gli egizi e i Caldei, i popoli antichi non erano in grado di calcolare con esattezza le fasi astrali) era consacrato a feste e cerimonie legate al solstizio d’inverno o rinascita del Sole (14 novembre-morte di Osiride, 17-23 dicembre-Saturnalia, 25 dicembre-Dies Natalis Solis Invicti), il cui ricordo ancestrale si perpetua tuttora in alcune ricorrenze (31 ottobre-Halloween, 2 novembre- i Defunti, 6 dicembre-San Nicola, 13 dicembre-S. Lucia-lux, 25 dicembre, Natività del Cristo-Sole dell’umanità). Durante tutte festività era in uso l’elargizione di regali. Nella paganità latina, immediatamente dopo il 25 dicembre, avevano inizio le feste dedicate a Giano e alla dea Strenia, durante le quali si sviluppò la consuetudine dei regali. Queste rituarie venivano dette, infatti, Sigillarie e nei loro antecedenti più remoti prevedevano sacrifizi umani - forse proprio di fanciulli - in onore di Kronos-Saturno. Giano bifronte era il dio di tutto ciò che ha inizio e Januarius era il primo mese dell’anno. Giano, divinità magica per antonomasia, era considerato il corrispondente maschile di Iside-Artemide-Diana-Luna (ricordiamo il predetto rapporto di discendenza Diana-Frau Holle-Befana) ed era quindi una divinità solare, poi sostituita da Elios-Sole. Anche Strenia (divinità sabina della salute, antenata della befana secondo G. Mauri) era cara ai romani che, all’inizio dell’anno (periodo in cui si eleggevano i consoli), ne invocavano la protezione elargendo doni. Ancor oggi chiamiamo strenne i regali natalizi.
Si può quindi concludere che, sotto il profilo etnoantropologico, l’origine delle leggende dei portatori di doni è connessa alle antiche usanze calendariali, che si compievano in modo rituale durante l’inverno. I dona ferentes, la Befana tra questi, sono personaggi quasi sempre ”invernali”. Esseri generati dal freddo.
I doni venivano offerti alle divinità ed ai fanciulli, in funzione di esorcismo del male futuro, per allontanare gli spiriti maligni con formule magiche (Sartori). Il lessicografo latino Festo scrive “Chiamiamo strena il dono che si fa in un giorno religioso come augurio di buon presagio”. Nelle culture primitive (ancora oggi, tra gli aborigeni Aranda) era molto rilevante il valore iniziatico del dono, quasi sempre connesso alla eliminazione nel fanciullo di una paura indotta in età prepuberale, a riconoscimento della maturazione psicofisica conseguita dal ragazzo e come definitiva accettazione nella comunità degli adulti. Si è sottolineato in precedenza che le civiltà arcaiche vedevano i bambini come esterni al gruppo sociale, analogamente ai morti. Essi venivano utilizzati dagli adulti proprio per entrare in contatto con gli estinti. Il rapporto tra defunti, bambini e cicli naturali era così avvertito che i culti funebri, agrari, genitali si interpenetravano sino a fondersi. Presso i nordici, Natale (Jul) era la festa dei defunti. L’inverno coincideva con l’inferno, era il tempo dei morts revenants, atteso quanto temuto. I bimbi, con i nomi degli antenati, venivano considerati il seme della continuità, dovevano morire simbolicamente per diventare adulti (iniziazione) e fungevano da tramiti tra i vivi e i morti. Dare ai fanciulli dei regali significava offrirli agli avi, ingraziandoseli e scongiurando i mali (cfr. A. Buttitta, Introduzione a “Le père Noel supplicié” , di Claude Levi Strauss).
Per molti, pur se a fin di bene, la Befana resta una strega e la stregoneria è sempre stata associata alla magia nera, punita con la morte dalla Chiesa e considerata frutto del diavolo. Il carbone che reca nella sacca è monito e castigo, che può avere indubbiamente una funzione grossolanamente pedagogica per l’infanzia, ma che attribuisce alla Befana un ruolo marcatamente punitivo, estraneo agli altri personaggi leggendari che consegnano doni. Il carbone, come detto, è Nigredo, materia nera dell’Opus alchemico. Secondo altra interpretazione, il carbone corrisponde invece ad una simbologia con funzione fondamentalmente educativa, in quanto immagine del peccato che annerisce l’anima. Dalla quantità ricevuta nella calza, il bambino estrae il metro del suo comportamento, il giudizio delle autorità preposte alla sua educazione, il giudizio di Dio. Per altri ancora (v. A. Cattabiani, Calendario feste, miti, leggende e riti dell’anno, Milano 1988), il carbone possiede un significato più nascosto, esprimendo “l’energia latente nella terra, il fuoco celato, pronto a rivivere acceso dal nuovo sole primaverile”. Questa tesi suppone, non erroneamente, che tale usanza provenga dai Celti e sia stata successivamente utilizzata per glorificare l’avvento del nuovo Sole-Gesù.
Come detto all’inizio, nella visione orientale, vera Epifania è considerata solo quella del battesimo di Cristo nel fiume Giordano, con l’intervento di Dio-Padre. Alcune chiese ortodosse il 6 gennaio festeggiano il Natale. Ciò, per una differenza calendariale e a riconferma che il lasso di tempo entro il quale si svolgevano i riti invernali è piuttosto ampio e dipende dalle diverse condizioni climatiche o culturali presenti nelle singole aree geografiche.
All’interno della tradizione cristiana legata al Natale come forma di perpetuazione transculturale dei riti solstiziali, si formeranno nella fantasia popolare tutte le successive figure di portatori di doni, probabilmente ricalcate direttamente o indirettamente sul ricordo dei Magi del racconto evangelico.
L’epifania, l’Apparizione, è quella del divino fanciullo, Sole-Luce-Rigenerazione dell’umanità. Si attua, in tal modo, una forma di paganizzazione dell’episodio cristiano, peraltro già vicino alla leggenda: i Magi subiscono una trasposizione nella sfera secolare per entrare a far parte del rituale della festa, della fiaba, per quanto riguarda la loro funzione di portatori di doni ai fanciulli, ampliata dall’immaginazione popolare. E’ questo il fenomeno del passaggio dalla storia, alla leggenda, al mito e ritorno, comune ad altri personaggi che recano regali, come la Befana e Babbo Natale.

 

Gli altri portatori di doni

Possono essere in questa sede solo citati altri personaggi di donatori che, a seconda dei casi, posseggono connotazioni positive o negative, ma sempre misteriose e in qualche modo interconnesse: S. Venceslao, condottiero e simbolo della libertà; Weinachtsmann, angelo messaggero; San Ruperto, alter ego del dio germanico Wotan-Odino, armato anch’egli di scopa; i Krampus , demonietti tirolesi; il vescovo cipriota S. Basilio; Nonno Gelo, versione laica russa di Santa Claus; elfi, folletti, gnomi, creature scandinave, intermedie tra il divino e l’umano. Da ricordare, ancora, la Babuska, figura femminile russa paralella alla Befana, e le incarnazioni allegoriche dei cicli naturali presenti in culture lontanissime dalla nostra, come quella dello “Uomo del Ghiaccio”, presente presso gli indiani Cherokee, quella del Dun Che Lao Ren cinese e dell’Hoteiosho giapponese (che molto ricorda Giano bifronte).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Enzo Varricchio

Nato a Bari il 27 settembre del 1964, avvocato e docente di economia.
La sua attività spazia in diversi campi della cultura.
Del 1988 è la sua silloge poetica intitolata “Prologo dell’inquietudine” (ed. K’an).
Nel 1992 realizza l’opera didattica “Compendio ipertestuale alla Critica della Ragion Pura di I. Kant”.
Nel 1993, cura l’organizzazione del ciclo di Convegni : “Le Eresie della Ragione”, manifestazione patrocinata dalla Presidenza della Repubblica e dalla RAI.
Una sua poesia, dal titolo “AntiSalomè”, dedicata al mondo femminile contemporaneo, viene scelta per presentare il Convegno Nazionale di Psichiatria: “Anoressia e bulimia allo specchio”, tenutosi a Lecce nel 1995.
Nel 1996 pubblica “San Nicola e il suo doppio” (ed. Dal Sud), un’opera sulla storia incognita del vescovo di Myra, che viene illustrata in occasione dell’ottavo centenario della Dedicazione della basilica nicolaiana.
E’ tra i fondatori del Comitato di Promozione Legislativa Economia Ventura di Bari, con il quale, nel 1997, elabora ed invia alle Camere la proposta di legge sui regimi fiscali sostitutivi e le aree franche.
Elabora ed invia alle Camere il progetto di legge finalizzato a defiscalizzare e deburocratizzare le iniziative culturali.
Su incarico del Comitato “Eufonia o la città della musica” predispone proposte di modifica al Regolamento comunale di Bari per l’accesso ai fondi destinati alla cultura (atti in corso di pubblicazione).
Sempre nel 1997, organizza e dirige “Mediterraneo 2000”, manifestazione dedicata alla rievocazione del passaggio della I Crociata in Puglia e patrocinata dalla Presidenza della Repubblica e dal Ministero della P.I.
Scrive i cataloghi e cura le mostre di numerosi artisti, tra i quali Lopez, Verrastro, Pantaleo, Chiatante, Lama, Donvito.
Nel 1998 fonda il Movimento Artistico “ARTE REALE”, un movimento che opera a Bari, Roma e Venezia e che si occupa di studiare strumenti di politica economica per favorire la ripresa dell’attività artistica in Italia.
Viene incaricato dalla “Onlus San Nicola per la Pace” di studiare le possibilità di realizzazione a Bari del primo Museo Internazionale Nicolaiano.
Svolge da anni un’intensa attività di conferenziere.
Collabora con le riviste mensili “Il Giornale dei misteri” di Firenze e con “Quaderni di Psichiatria in Puglia” di Bari.
Per il quotidiano “Barisera” ha pubblicato oltre quaranta articoli e saggi, tra i quali, la “Guida alfabetica a fatti, simboli e leggende della Puglia misteriosa” in undici puntate.

 

 

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